Nelle ultime settimane Google ha dovuto fronteggiare due decisioni cruciali che, pur maturate in contesti differenti, mostrano un principio comune: le reazioni dei governi, delle autorità nazionali e sovranazionali in materia di Antitrust. 
Sono stati pronunciati infatti due verdetti da parte dell’Antitrust americana e di Bruxelles che hanno messo in discussione i principi di condotta del colosso di Mountain View nell’ambito dell’adtech., imponendo, di fatto, un ripensamento strategico complessivo, da una parte e dall’altra dell’Atlantico.

La multa europea da 2,95 miliardi per l’adtech

Ma vediamo in dettaglio cosa è successo, partendo da quanto accaduto in un’area più vicina a noi: l’Unione Europea.
Ecco dunque che Commissione ha inflitto a Google una sanzione da 2,95 miliardi di euro (3,45 miliardi di dollari) per abuso di posizione dominante nel mercato della pubblicità digitale. Secondo l’esecutivo comunitario, il colosso californiano ha sistematicamente favorito i propri servizi di display advertising, penalizzando editori, inserzionisti e concorrenti e creando conflitti di interesse lungo l’intera filiera adtech.

“Google ha abusato della sua posizione dominante nell’adtech, danneggiando editori, inserzionisti e consumatori. Questo comportamento è illegale secondo le regole antitrust europee”, ha dichiarato Teresa Ribera, vicepresidente esecutiva della Commissione.

Il provvedimento impone a Google di interrompere immediatamente le pratiche considerate illecite, dando all’azienda 60 giorni di tempo – quindi entro l’inizio del mese di novembre – per presentare una proposta credibile di “remediation”. In assenza di soluzioni adeguate, Bruxelles non esclude misure più drastiche come lo smantellamento di alcune attività pubblicitarie del gruppo, già ipotizzato in un documento del 2023.

Le tensioni geopolitiche

La decisione è stata preceduta da settimane di tensioni diplomatiche. L’amministrazione Trump aveva infatti minacciato ritorsioni commerciali, tra cui nuove tariffe sulle automobili europee, se la Commissione avesse dato seguito al provvedimento. Il rinvio iniziale della multa è stato interpretato come un tentativo di prendere tempo in attesa di sviluppi nei negoziati commerciali transatlantici. Alla fine, però, la Commissione ha deciso di procedere, ribadendo la centralità del diritto antitrust europeo rispetto alle pressioni politiche esterne.

Un mosaico di multe miliardarie

La sanzione da 2,95 miliardi si inserisce in una sequenza ormai consolidata. Nel 2017 Google era stata multata per 2,42 miliardi per aver favorito il proprio servizio di comparazione prezzi. Nel 2018 era arrivata la multa record da 4,34 miliardi legata ad Android, per pratiche anticoncorrenziali nei contratti di preinstallazione. Nel 2019 un’ulteriore sanzione da 1,49 miliardi aveva riguardato le pratiche di esclusiva pubblicitaria con AdSense.

La multa del 2025 non raggiunge i livelli record del passato, ma conferma una linea di continuità nell’approccio di Bruxelles: limitare lo strapotere delle Big Tech con provvedimenti che incidono direttamente sul loro core business.

La difesa di Google

Dal canto suo, Google respinge le accuse. Lee-Anne Mulholland, che in azienda riveste il ruolo di responsabile globale degli affari regolatori, ha definito la decisione “sbagliata” e dannosa non solo per l’azienda ma anche per migliaia di imprese europee: “Imporre cambiamenti così drastici renderà più difficile per loro monetizzare. Non c’è nulla di anticoncorrenziale nel fornire servizi sia agli inserzionisti sia agli editori, e oggi più che mai esistono alternative ai nostri strumenti”.

La società ha annunciato ricorso e ha già contabilizzato la multa nei bilanci del terzo trimestre, segno che si prepara a una lunga battaglia legale.

Il verdetto americano: niente spezzatino, ma stop agli accordi esclusivi

Pochi giorni prima della decisione europea, è arrivato un altro verdetto, questa volta dagli Stati Uniti, che chiude (almeno per ora) una delle cause antitrust più rilevanti degli ultimi decenni.

Un giudice federale ha stabilito che Google non dovrà separarsi da Chrome né da Android, respingendo la richiesta del Dipartimento di Giustizia (DoJ) di uno smembramento radicale dell’azienda. Tuttavia, la decisione impone restrizioni che cambiano in profondità il rapporto di Google con partner, utenti e concorrenti.

La genesi della causa

Il procedimento era stato avviato nel 2020, quando il DoJ accusò Google di mantenere il proprio monopolio nella ricerca online attraverso contratti miliardari con produttori di dispositivi e browser. L’accordo più noto resta quello con Apple: per restare il motore di ricerca predefinito su Safari, Google paga ogni anno più di 20 miliardi di dollari. Intese simili esistono con Samsung, Mozilla e operatori come AT&T e Verizon.

Questi accordi hanno consolidato la quota di mercato globale di Google Search al 90%, rendendo quasi impossibile per i concorrenti conquistare spazi significativi.

Le misure imposte

Il giudice Amit Mehta ha giudicato “eccessiva” la richiesta di cessione di Chrome e Android, ma ha imposto vincoli stringenti:

  • Stop agli accordi esclusivi: Google non potrà più firmare contratti che vincolano la licenza del Play Store alla preinstallazione obbligatoria di Chrome o Search.
  • Obbligo di condivisione dei dati: l’azienda dovrà condividere con “concorrenti qualificati” parti del proprio indice di ricerca e dati sulle interazioni degli utenti.
  • Comitato indipendente: un organismo tecnico vigilerà per sei anni sul rispetto delle nuove regole.

Si tratta di misure che ricordano, seppur in forma più limitata, il Digital Markets Act europeo, aprendo una stagione di maggiore trasparenza e concorrenza anche negli Stati Uniti.

L’impatto sull’AI

Il giudice Mehta ha sottolineato che l’intelligenza artificiale rappresenta un punto di discontinuità: piattaforme come ChatGPT di OpenAI e Gemini di Google stanno già modificando le dinamiche della ricerca. L’obbligo di data sharing imposto a Google potrebbe accelerare la nascita di alternative competitive, alimentando la crescita di chatbot e assistenti conversazionali che sfidano il primato della search tradizionale.

Reazioni dei mercati e prospettive future

Il verdetto ha avuto un impatto immediato sui mercati finanziari. Le azioni di Alphabet hanno guadagnato oltre il 7% nelle contrattazioni after hours, mentre Apple ha visto salire il titolo del 3%, sollevata dal fatto che non siano stati cancellati i flussi di revenue sharing che garantiscono miliardi di dollari l’anno.

Google, però, non intende fermarsi: l’azienda ha annunciato appello, e la vicenda potrebbe approdare fino alla Corte Suprema entro il 2027 o il 2028. Nel frattempo, negli Stati Uniti prosegue un’altra causa avviata nell’aprile 2025 sul monopolio pubblicitario, con il DoJ che chiede addirittura lo smantellamento di asset dell’adtech stack.

Due verdetti, un principio comune

Messi insieme, i due pronunciamenti offrono un’immagine nitida: la stagione in cui i giganti digitali potevano muoversi senza vincoli stringenti sta tramontando. L’Europa colpisce con multe miliardarie e l’ipotesi di smantellamenti; gli Stati Uniti scelgono l’approccio giudiziario, meno radicale ma comunque capace di incidere sugli assetti competitivi.

Diverse le filosofie normative: prescrittiva e strutturale quella europea, basata su casi specifici e compromessi quella americana. Ma il messaggio è convergente: il dominio di Google non può più poggiare su pratiche esclusive, conflitti di interesse e chiusure informative.

Per Mountain View si apre una fase di ripensamento strategico che potrebbe ridefinire il suo ruolo nei mercati della pubblicità e della ricerca, con implicazioni dirette anche sullo sviluppo dell’intelligenza artificiale e sul rapporto con partner globali come Apple, Samsung e i grandi carrier.

Google sotto pressione su due fronti: Europa e Stati Uniti serrano i ranghi sull’antitrust ultima modifica: 2025-09-07T19:27:45+02:00 da Miti Della Mura

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