Intel, gli Stati Uniti entrano nel capitale con il 10%. Una svolta nella politica industriale americana.

Il governo americano acquisirà una quota del 10% di Intel, trasformando i fondi del Chips Act in partecipazione azionaria. L’operazione, voluta da Donald Trump, segna la rottura con la tradizione del libero mercato e introduce logiche di capitalismo di Stato. L’obiettivo è rafforzare la produzione di semiconduttori negli USA e ridurre la dipendenza da Taiwan e Corea del Sud.
Resta però l’incognita sulla capacità di Intel di colmare il divario tecnologico con concorrenti come Nvidia, TSMC e AMD

La notizia è apparentemente semplice nella sua sintesi. Il governo americano ha annunciato l’intenzione di acquisire una quota del 10% nel capitale di Intel.
Il punto è che questa decisione, di cui gli analisti finanziari parlavano da giorni, segna di fatto una svolta senza precedenti nella politica industriale degli Stati Uniti. L’operazione, voluta direttamente dal presidente Donald Trump, trasforma di fatto fondi pubblici già stanziati con il Chips Act in una partecipazione azionaria. La scelta con la quale gli Stati Uniti entrano nel capitale di Intel, come si legge unanimemente nelle cronache in queste ore, rompe di fatto con la tradizione del libero mercato e avvicina Washington a logiche di “capitalismo di Stato”, con l’obiettivo di rilanciare la manifattura dei semiconduttori in patria e ridurre la dipendenza tecnologica da Asia e Cina.

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Gli Stati Uniti entrano nel capitale di Intel: i dettagli della partecipazione

L’operazione è stata ufficializzata nella giornata di ieri, venerdì 22 agosto, alla Casa Bianca. Gli Stati Uniti, tramite il Tesoro, acquisiranno una quota pari al 9,9% del capitale di Intel, corrispondente a circa 433 milioni di azioni, a un prezzo di 20,47 dollari per titolo. L’investimento totale ammonta a 8,9 miliardi di dollari, finanziati con fondi pubblici già destinati all’azienda dal Chips and Science Act del 2022, ma non ancora erogati, e da un programma del Dipartimento della Difesa.

Il prezzo fissato per l’operazione rappresenta uno sconto rispetto alla chiusura in Borsa del titolo, che il giorno dell’annuncio viaggiava intorno ai 24,80 dollari. L’accordo siglato tra le parti include anche una clausola che consente a Washington di esercitare un warrant quinquennale per acquistare un’ulteriore quota del 5% a un prezzo fisso di 20 dollari, qualora Intel perdesse il controllo della propria divisione foundry.

Sul piano della governance, l’ingresso degli Stati Uniti nel capitale di Intel resta “passivo”: questo significa che il governo non otterrà poltrone nel consiglio di amministrazione, né avrà poteri di veto o diritti informativi. In assemblea, gli Stati Uniti si impegneranno a votare in linea con le indicazioni del board, con alcune eccezioni al momento non meglio specificate.

L’annuncio è stato accolto con entusiasmo da Wall Street: il titolo Intel ha chiuso la giornata con un +5,5% e ha guadagnato un ulteriore 1% nelle contrattazioni after hours.

Le ragioni strategiche: sicurezza nazionale e sovranità tecnologica

Come detto, l’operazione con la quale gli Stati Uniti entrano nel capitale di Intel segna un passaggio politico cruciale. Trump ha più volte ribadito che i semiconduttori sono “fondamentali per il futuro dell’America” e ha collocato il rilancio della produzione di chip all’interno del territorio statunitense al centro del suo secondo mandato. La decisione di entrare direttamente nel capitale di Intel si muove lungo due direttrici: sicurezza nazionale e competizione globale.

L’obiettivo dichiarato è dunque in primo luogo la riduzione della dipendenza dagli impianti di Taiwan e Corea del Sud, che oggi producono la gran parte dei semiconduttori avanzati. Un “single point of failure” – come l’ha definito il segretario al Tesoro Scott Bessent – che rappresenta un rischio per la catena di fornitura e per la stabilità strategica degli Stati Uniti. In un contesto di tensioni crescenti con Pechino, Washington teme che un conflitto nello Stretto di Taiwan possa bloccare la disponibilità di chip, con conseguenze devastanti per l’economia e la difesa.

In secondo luogo, c’è poi la volontà di colmare il divario tecnologico con i concorrenti. Intel, un tempo leader indiscusso sul mercato dei microprocessori, ha perso terreno negli ultimi anni, soprattutto nei chip per l’intelligenza artificiale, dove Nvidia domina il mercato, e nei processori, settore nel quale la rivale AMD ha conquistato importanti quote. Intel, è un dato di fatto, ha registrato nel 2024 una perdita di quasi 19 miliardi di dollari, la prima dal 1986, ed è in ritardo nei tempi di realizzazione di nuovi impianti produttivi, a partire dal sito in Ohio.

Il sostegno federale ha dunque una valenza industriale oltre che politica: garantire che negli Stati Uniti esista almeno un produttore in grado di sviluppare e fabbricare semiconduttori di fascia alta, mantenendo competenze critiche sul territorio nazionale.

Intel, Trump e il nuovo interventismo industriale

La mossa su Intel non è un episodio isolato, ma parte di una strategia più ampia con cui Trump sta ridefinendo i confini tra pubblico e privato nell’economia americana. Negli ultimi mesi, la Casa Bianca ha stretto accordi diretti con altre aziende considerate strategiche:

  • con Nvidia e AMD, che hanno accettato di destinare il 15% dei ricavi dalle vendite di chip in Cina al governo federale, in cambio delle licenze di esportazione;
  • con MP Materials, società di estrazione di terre rare, della quale il Pentagono è diventato il principale azionista nel mese di luglio di quest’anno;
  • con Nippon Steel, a cui è stato concesso di acquistare U.S. Steel in cambio di una “golden share” governativa con diritti di veto.

Si tratta, ricordano molti analisti, di interventi che ricordano modelli di politica industriale più vicini a quelli dell’Asia o dell’Europa che alla tradizione americana di libero mercato. Come viene sottolineato da più parti, l’operazione richiama i salvataggi pubblici del settore automobilistico dopo la crisi del 2008, quando Washington arrivò a detenere oltre il 60% di General Motors. La differenza è che, nel caso di Intel, non si tratta di un salvataggio di emergenza, ma di un investimento strategico in un settore vitale per la competizione tecnologica globale.

Per Trump, la logica è chiara: trasformare sussidi e grant già previsti in partecipazioni azionarie, garantendo allo Stato un ritorno e, al tempo stesso, rivendicando la difesa dell’interesse nazionale. Come ha sintetizzato il segretario al Commercio Howard Lutnick: “Perché regalare miliardi a una società privata quando possiamo ottenere una quota del capitale? L’America deve avere il beneficio dell’accordo.”

Le incognite: Intel può davvero rinascere?

Resta però il nodo più delicato: il sostegno pubblico basterà a rilanciare Intel?

Molti analisti mantengono un certo scetticismo. Daniel Morgan, portfolio manager di Synovus Trust, ha sottolineato che i problemi della società “vanno oltre una semplice iniezione di capitali”. In particolare, la divisione foundry – destinata a produrre chip per conto terzi – richiede investimenti colossali per competere con TSMC, il gigante taiwanese che oggi detta gli standard tecnologici. Senza un forte partner industriale o ulteriori risorse, Intel rischia di non riuscire a colmare il gap.

C’è poi il tema dell’innovazione. Negli ultimi anni, Intel ha perso slancio nella ricerca e sviluppo e non è riuscita a intercettare le nuove ondate tecnologiche: prima i chip per il mobile, poi quelli per l’AI. Lip-Bu Tan, nominato CEO a marzo, ha avviato una dura ristrutturazione, con il taglio del 15% della forza lavoro, ma deve ancora dimostrare di saper guidare il rilancio.

Infine, c’è la questione politica. La presenza del governo nel capitale di una delle più grandi aziende tecnologiche americane potrebbe generare nuove incertezze: quale sarà il grado effettivo di ingerenza? E come reagiranno i mercati e i partner globali?

Nonostante le rassicurazioni sulla natura “passiva” della partecipazione, il rischio percepito da alcuni osservatori è quello di un precedente che allarghi il campo dell’intervento pubblico ben oltre i casi di crisi.

Gli Stati Uniti entrano nel capitale di Intel: uno spartiacque per la politica industriale americana

Come abbiamo più volte ricordato in questo servizio, non vi è dubbio che la decisione di Trump rappresenti un punto di svolta per un paese, come l’America, tradizionalmente scettico verso il ruolo diretto dello Stato nell’economia, e oggi sempre più vicino a modelli di politica industriale più interventisti, con l’obiettivo di preservare la leadership tecnologica in settori chiave.
D’altro canto, per Intel, l’operazione rappresenta una boccata d’ossigeno finanziaria e soprattutto la garanzia politica di avere Washington al proprio fianco.
Sulla carta, la notizia che gli Stati Uniti entrano nel capitale di Intel rappresenta una situazione win-win, che consente per altro al Governo Usa di inviare un messaggio diretto a Pechino e in generale a tutto il mondo: i semiconduttori non sono solo un business, ma un asset strategico da proteggere a ogni costo.
Non a caso, lo stesso presidente Trump ha dichiarato sul proprio social Truth che questo sarà “il primo di molti accordi simili”.

Intel, gli Stati Uniti entrano nel capitale con il 10%. Una svolta nella politica industriale americana ultima modifica: 2025-08-23T15:18:51+02:00 da Miti Della Mura

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