Per Var Group l’intelligenza artificiale non è un progetto IT da aggiungere all’esistente. È un fattore che obbliga le aziende a ripensare processi, ruoli, governance e modelli decisionali. La visione di Francesca Moriani si lega a una strategia internazionale che punta a coerenza, continuità operativa e crescita misurabile

Il primo segnale è nel nome e nella sostanza: non più una convention Var Group, ma Z!NG, Zone of Innovation & Growth. 
Con Z!NG, Rimini diventa di fatto un laboratorio in cui si prova a interpretare come l’intelligenza artificiale stia modificando la forma e il funzionamento dell’impresa contemporanea. Sul palco, tra modelli organizzativi e geopolitica dell’AI, è la voce di Francesca Moriani, amministratrice delegata di Var Group, che definisce la direzione strategica: la tecnologia non potrà mai essere trasformativa se resterà confinata dentro l’architettura del passato.

Var Group: l’intelligenza plurale come nuova condizione competitiva

La trasformazione non può essere delegata alle macchine, perché sono gli esseri umani a definire il contesto in cui la tecnologia opera. Francesca Moriani parte da qui per introdurre un concetto che ribalta la narrazione dominante: l’intelligenza plurale “Non possiamo congelare l’innovazione in una fotografia come si faceva in passato. Non possiamo cristallizzare un’immagine. L’innovazione è un film che scorre veloce”. Quasi un invito a prendere atto che il cambiamento non è qualcosa che si adotta, ma qualcosa che si diventa .Non si tratta quindi di adottare una nuova tecnologia, ma di ripensare il modo in cui l’impresa riconosce, distribuisce e utilizza l’intelligenza.

In questa visione la competitività nasce dall’interazione equilibrata di tre forme di intelligenza: umana, perché solo le persone attribuiscono significato, assumono rischi e prendono decisioni nel dubbio; dei dati, perché senza una base oggettiva e misurabile l’intuizione non scala; organizzativa, perché la libertà delle persone e l’informazione dei dati producono valore solo se i processi sanno accoglierle e trasformarle in azione.

L’AI è dunque un acceleratore, non un sostituto: potenzia le decisioni quando le tre intelligenze già convivono, ma amplifica i problemi quando operano in conflitto. “Se applichi l’AI a un processo tradizionale non generi un cambiamento. Devi avere il coraggio di cambiare il processo e la cultura che lo governa.”

In questo equilibrio, la dimensione della responsabilità è decisiva. Non esiste intelligenza plurale senza accountability: assumere decisioni in autonomia implica anche rispondere dei risultati, positivi o negativi che siano.

La solidità di questa impostazione è suffragata dai dati: secondo il MIT, oltre il 90 percento dei progetti di AI fallisce quando viene introdotto senza una reingegnerizzazione dei processi. 

Ripensare i processi per rendere possibile l’AI

La criticità non è tecnologica, è strutturale. I modelli gerarchici, progettati per minimizzare l’incertezza e distribuire comandi lungo catene rigide, diventano insostenibili in un contesto in cui la competizione si misura sui tempi di reazione ai dati. Qui Francesca Moriani pone la domanda che condensa la necessità del cambio di paradigma: “Nella vita siamo liberi di agire dentro regole comuni. Perché, quando entriamo in azienda smettiamo di esserlo?”

La risposta non è un esperimento culturale, ma un atto industriale: l’adozione di un nuovo modello, che Var Group definisce una Open Platform Organization, nella quale le decisioni sono coerenti con la conoscenza e non con la posizione nell’organigramma. “Si passa dal gestire le persone al prendersi cura delle persone. Il controllo rallenta. La fiducia abilita.” È una visione che mette al centro la velocità collettiva, non il controllo individuale.

L’AI come architettura del business, la visione di Var Group

Il valore dell’AI non si manifesta nella dimostrazione tecnologica, ma nei comportamenti che abilita: riduzione degli errori, eliminazione delle attività ripetitive, sincronizzazione tra dati e decisioni, continuità operativa.

Quando Moriani sostiene che “sui progetti di AI non si può misurare il ROI. Bisogna misurare l’efficienza, la capacità di miglioramento, la velocità di reazione”, definisce una metrica industriale che sposta l’AI dal perimetro IT al cuore della governance. Si passa dal trattarla come strumento, a riconoscerla come principio di progettazione dell’impresa.

Una presenza internazionale che deve diventare identità

Il cambiamento tocca l’intera architettura aziendale. Var Group sta superando un modello costruito per stratificazione – linee di business, aziende acquisite, specializzazioni verticali, sedi distribuite – per adottare un’unica logica organizzativa, in cui competenze, ruoli e responsabilità non dipendono più dal perimetro di appartenenza, ma dal contributo effettivo che ciascuno può esprimere al servizio del cliente. La One Company non è quindi un’etichetta dedicata a filiali o mercati esteri: è il principio con cui tutte le unità del gruppo vengono rese parte di un solo organismo, progettato per muoversi con la stessa velocità e coerenza in ogni contesto operativo.

Questo implica che le decisioni non viaggiano più lungo catene gerarchiche che separano funzioni e obiettivi, ma vengono prese dove risiedono i dati e la comprensione del processo. Il ruolo dei process owner si rafforza, perché la competenza diventa la fonte del mandato decisionale. I team sono costruiti per incrociare professionalità diverse – tecnologia, dati, business – riducendo l’attrito tra chi individua un problema e chi ha titolo per risolverlo. In questa struttura, l’AI non è un livello aggiuntivo, ma un fattore che solidifica questa integrazione, accelerando azioni e miglioramenti che in un’organizzazione frammentata richiederebbero mesi di mediazione e autorizzazioni.

In questa prospettiva, l’integrazione organizzativa non è un esercizio accademico: è la condizione per sostenere una crescita che si muove ormai su scala industriale. Var Group ha chiuso l’ultimo esercizio con 875,7 milioni di euro di ricavi e una squadra di 4.400 professionisti distribuiti tra Italia ed estero. Il traguardo è dichiarato e vicino: raggiungere e superare la soglia del miliardo mantenendo una traiettoria di sviluppo stabile, meno dipendente dalle acquisizioni e sempre più fondata sulla capacità interna di generare valore.

In quest’ottica, la strategia internazionale non rappresenta un capitolo separato, ma la verifica più rigorosa del modello One Company. Una struttura frammentata — per origine societaria, presidio territoriale o tradizione organizzativa — non potrebbe mai sostenere standard coerenti in mercati a forte intensità digitale. È il punto su cui insiste Fabrizio Saltalippi, responsabile dei mercati internazionali: “Vogliamo che Var Group abbia all’estero la stessa credibilità e forza commerciale che ha in Italia.”

L’obiettivo è chiaro: consolidare la presenza nei Paesi europei più competitivi — Germania, Spagna, Francia, Svizzera — e, allo stesso tempo, far crescere una piattaforma globale in cui l’infrastruttura tecnologica, a partire dalla cybersecurity, costituisce un fattore abilitante. La rete di Security Operation Center distribuiti tra Europa, America Latina e Asia consente infatti un servizio follow-the-sun che non si adatta alle differenze geografiche, le annulla: stessa operatività, stessa qualità, stessa capacità di risposta in ogni contesto.

La crescita, in altre parole, non è una somma di espansioni locali, ma la conseguenza di un’identità unica, resa scalabile dalla coerenza interna.

Saltalippi fissa un obiettivo netto: triplicare il fatturato internazionale in tre anni, facendo della One Company non uno slogan, ma un asset concreto. 

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Z!NG e il coraggio di cambiare l’impresa: l’intelligenza plurale secondo Var Group ultima modifica: 2025-10-29T08:45:00+01:00 da Miti Della Mura

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